Era il 17 aprile 2014 quando il Mondo ebbe certezza che mai più la penna di Gabriel Garcia Marquez avrebbe impregnato d'inchiostro fogli bianchi. La sua morte ha segnato la fine di una corrente letteraria conosciuta come " realismo magico" il cui incipit si attribuì al boom letterario dell'America Latina del XX secolo, con la pubblicazione del romanzo Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez nel 1967, che viene considerato il testo seminale del realismo magico insieme ai racconti di Jorge Luis Borges ma anche quelli di Dino Buzzati. Un tono di realismo magico "ante litteram" è tipico dei racconti di E.T.A. Hoffmann, in cui l'elemento soprannaturale emerge insospettato nelle pieghe della vita di tutti i giorni.
Come abbia cominciato a scrivere, lo raccontò lo stesso Marquez, soprannominato Gabo, a Caracas il 3 maggio del 1970, nell'Ateneo della capitale. Riprodotto in seguito da «El Espectador» di Bogotà.
«Prima di tutto, scusatemi se parlo da seduto, ma la verità è che se mi alzo corro il rischio di cadere a terra per la paura. Sul serio. Ho sempre creduto che i cinque minuti più terribili della mia vita mi sarebbe toccato trascorrerli su un aereo e di fronte a venti o trenta persone, non davanti a duecento amici come adesso. Per fortuna, ciò che mi succede in questo momento mi permette di cominciare a parlare della mia letteratura, giacchè stavo pensando che ho iniziato ad essere scrittore nello stesso modo in cui sono salito su questo palco: per forza. Confesso di avere fatto tutto il possibile per non partecipare a questa riunione: ho cercato di ammalarmi, ho tentato di farmi venire una polmonite, sono andato dal barbiere con la speranza che mi sgozzasse e, infine, mi è venuta in mente l'idea di presentarmi senza giacca e cravatta in modo che non mi facessero entrare ad un incontro formale come questo, ma dimenticavo di trovarmi in Venezuela, dove si può andare dovunque in maniche di camicia. Risultato: eccomi qui e non so da dove cominciare. Però vi posso raccontare, per esempio, come ho iniziato a scrivere. A me non era mai passato per la testa che potessi diventare scrittore, però, ai tempi in cui ero studente, Eduardo Zalamea Borda, direttore del supplemento letterario de "El Espectador" di Bogotà, pubblicò un articolo in cui diceva che le nuove generazioni di scrittori non offrivano nulla, che non si scorgeva da nessuna parte un nuovo autore di racconti o un nuovo romanziere. Zalamea Borda concludeva affermando che veniva rimproverato perché sul suo giornale pubblicava soltanto firme stranote di scrittori molto anziani e non dava spazio a nessuno giovane, mentre la verità, diceva. era che non c'erano giovani che scrivessero.
In me allora nacque un sentimento di solidarietà verso i miei coetanei e decisi di scrivere un racconto iusto per tappare la bocca a Edoardo Zalamea Borda. che era un mio grande amico o, che almeno, lo diventò in seguito. Mi sedetti, scrissi il racconto e lo mandai a "El Espectador". Il secondo scossone lo ebbi la domenica successiva quando aprii il giornale e trovai il mio racconto a tutta pagina accanto ad un articolo in cui Eduardo Zalamea Borda riconosceva di essersi sbagliato, perché evidentemente « con quel racconto nasceva il genio della letteratura colombiana » o qualcosa del genere.
Allora si che mi preoccupai e mi dissi: « In che guaio mi sono cacciato! E ora che faccio per non far fare una brutta figura a Eduardo Zalamea Borda ?». Continuai a scrivere, era la risposta. Ma mi rimaneva sempre il problema del tema: ero costretto a cercarmi il racconto per poterlo scrivere.
E questo mi consente di dirvi una cosa che posso sapere solo adesso, dopo aver pubblicato cinque libri il mestiere dello scrittore è forse l'unico che diventa più difficile quanto più lo si pratica. La facilità con cui mi sedetti una sera a scrivere quel racconto non può essere paragonata alla fatica che mi costa adesso riempire una pagina. quanto al mio metodo di lavoro, è abbastanza coerente con ciò che vi sto dicendo. Non so mai quanto riuscirò a scrivere né cosa scriverò. Aspetto che mi venga in mente qualcosa e, quando mi viene un'idea che ritengo buona, e la rimugino in testa e la lascio maturare. Quando l'ho rifinita ( e a volte passano molti anni come nel caso di Cent'anni di solitudine, a cui ho pensato per 19 anni), quando l'ho rifinita, ripeto, allora mi siedo a scriverla, e li comincia la parte più difficile e quella che più mi annoia. Perché la cosa più piacevole della storia è concepirla, affinarla piano piano, girandosela e rigirandosela in testa, così che al momento di mettersi a scriverla, ormai non interssa granché o almeno a me non interessa granché».
Tratto da "Non sono venuto a far discorsi" (Mondadori)
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